VERSO UN NUOVO HUMAN CENTERED CONTENT DESIGN

Costruisci relazioni, non link” (Scott Wyden Kivowitz)

Il ruolo assunto dalla comunicazione nel corso dell’ultimo anno ci impone di rivedere quasi drasticamente i vecchi paradigmi del settore, sottolineati a matita nei grandi tomi accademici ai tempi dell’università. Oggi è ormai del tutto evidente il ruolo assunto dai social media, in primis nella nostra quotidianità plasmata in questi ultimi mesi dai vari lockdown, in secondo luogo come touch point privilegiati in cui nasce e si consolida la relazione fra brand e consumatore. Termine, quest’ultimo, che appare ormai piuttosto anacronistico.

No, non starò qui a propinarvi un lungo e pedante excursus sul tramonto del complesso industriale-televisivo di cui parla Seth Godin ne “La Mucca Viola”, pietra miliare dei libri sul marketing. Ritengo infatti, dal mio umilissimo osservatorio, che siamo già a uno step successivo. La pandemia ha accelerato incredibilmente alcuni processi latenti di cambiamento, che avrebbero altrimenti necessitato di diversi anni per maturare.

Uno di questi è l’interazione tra design, contenuto e audience di cui tratto in questo articolo.

Qui invece parlerò di un nuovo paradigma che plasmerà le strategie di marketing del contenuto già dal 2021 e che vorrei definire “human centered content design”. Ovvero: rimettere davvero le persone, i loro bisogni, le loro emozioni e sensazioni, al centro del villaggio. Non solo: imparare a co-creare contenuti e valori con le persone.

Human centered content design: una nuova bussola per orientarci in tempi in cui tutto cambia, tranne il cambiamento.

1.       Be human: la nuova era conversazionale

Abbiamo un disperato bisogno di umanità, anche nei brand, per sentirci meno soli in tempi di rigido distanziamento sociale. Mettiamola così: più le distanze fisiche tra le persone si allungano, più quelle digital si accorciano.

Ce ne siamo accorti già durante il primo lockdown, con il ritorno in grande spolvero della comunicazione corporate, sottolineata dal Sole24Ore con il lungimirante esempio della Walmart: i manager del colosso americano della grande distribuzione hanno realizzato uno spot partendo da una poesia scritta da un loro dipendente, Terrel Myles, in pausa pranzo. La sua “Hearts of Magic” è diventata un inno alla vita, declamato tra i banchi di frutta e verdura e tra gli scaffali dei detersivi. Così, il commesso di una catena di supermercati diventa una stella della pubblicità.

Nella nuova “era conversazionale”, così definita dall’Harvard Business Review, il brand vira da una comunicazione commerciale e di prodotto a una nuova relazione con le persone, mettendo in evidenza valori, visioni, azioni rivolte alla comunità e la sua stessa umanità.

Questo passa anche, tout court, dal "metterci la faccia" sui social: brand che mettono al centro dei piani editoriali i propri dipendenti con le loro storie, mostrano lo staff al lavoro, lanciano “Live” (altra keyword 2020) con i propri manager che dialogano con la community. Non da meno, la scelta del tono di voce, che da istituzionale si trasforma in un tono più gentile, empatico, autentico, rivelando l’umanità dietro la marca.

2.       Un nuovo, consapevole, brand activism

Non è più possibile comunicare efficacemente estraniandosi dalla realtà e dal contesto in cui si opera. Oggi i brand possono e devono prendere una posizione rispetto alle questioni sociali. Esprimere emozioni e sensazioni, proprio come le persone.

È il grande insegnamento che deriva dalle campagne di adesione al movimento #BlackLivesMatter in risposta alla morte di George Floyd negli Stati Uniti, lo scorso giugno. Su Instagram ha spopolato il Blackout Tuesday, con la condivisioni di foto nere e l’appello a non pubblicare nuovi contenuti. Spotify ha aggiunto 8 minuti e 46 secondi di silenzio ad alcune popolari playlist.

Tra gli altri brand che hanno preso una posizione forte e netta si annoverano Twitter, Amazon Music, Youtube, Linkedin, Nike. “Stare in silenzio significare essere complici”, ha scritto Netflix sul proprio profilo Twitter.

Un nuovo Political Corporate Social Responsibility che sfida la comunicazione a mettersi in gioco anche su altri fronti, come la sostenibilità, l’ambiente, il gender gap e la stessa pandemia. “In passato, un’azienda poteva scegliere per quali problemi impegnarsi. Oggi non è più così. I consumatori, in particolare Millennial e Generazione Z, chiedono a gran voce alle imprese di essere protagoniste del cambiamento del mondo”, spiegano Philip Kotler e Christian Sarkar nel libro ‘Brand actvism. Dal purpose all’azione’.

3.       User Generated Content e co-creazione di valore

Se è vero che “nessun uomo è un’isola”, un nuovo umanesimo è possibile comunicando non solo per le persone, ma con le persone. Nel 2021, i brand dovranno imparare a co-creare i contenuti con il proprio target e ci si aspetta un grande afflusso di user generated content (UGC) con un rapporto brand/cliente più orizzontale.

Questo passa in parte dal consolidamento delle strategie di (micro)influencer marketing, ma anche dalla nuova “cultura del remix” portata in auge da social popolari presso il pubblico più giovane, come TikTok. Il remix culturale consiste, in estrema sintesi, nell’incoraggiare l’utilizzo di materiale creativo già esistente (immagini, testi, audio, video) per dar vita a nuove opere. Creare contenuti partendo da qualcosa di già esistente. Attraverso i nuovi e semplici tool di editing foto e video e piattaforme innovative come Koji, gli utenti possono così utilizzare template, filtri e meme rendendo virali le campagne dei brand.

Le sfide che ci attendono sono molte e servirà un pizzico di audacia per spingere verso l’innovazione le nostre strategie di comunicazione e content marketing. Parola d’ordine? Ancora una volta sarà sperimentazione.